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Un corridoio del carcere minorile del Pratello (fotogramma dal documentario “La prima volta”)

Reportage Vittorio Martone Giovedì 4 aprile 2019

La prima volta, a tappe

Integrazione e recupero: un’ipotesi possibile? Un documentario racconta le attività di reinserimento e la realtà del “carcere del Pratello”.

È domenica 26 novembre 2017 e siamo in viaggio da Matera a Bologna. Scherziamo, dicendo che non possiamo riportarci a casa prodotti tipici del sud, che lo spazio in valigia lo occupano i premi. La battuta ce la rigiochiamo sui social, scherzando sulla soddisfazione per le targhe in vetro con il logo stampato sopra del Matera Sport Film Festival 2017, appena conclusosi. Siamo io e Roberto Cannavò, regista del documentario La prima volta, incentrato sulle vite dei ragazzi nel carcere minorile di Bologna, detto del Pratello per la via su cui affaccia (che è quella del divertimento cittadino, per chi non lo sa, e che infatti ai detenuti fa chiedere: «Ma che succede ogni sera qua fuori che c’è sempre gente che suona e fa festa?»).

Dopo le partecipazioni allo Human Rights Nights e al Terra di Tutti Film Festival a Bologna, siamo al primo festival italiano lontano da casa. L’entusiasmo non è solo per i riconoscimenti ottenuti – “Miglior documentario” e “Premio speciale della giuria – Fausto Taverniti” – ma per il contesto accogliente, l’ottima organizzazione, gli incontri (su tutti quelli con Gian Paolo Ormezzano, Lorenzo Roata, Prisca Maggia del Rueda Film Festival e il padrone di casa Michele Di Gioia). Fra questi quello più denso con Sergio Cesarino, campione nazionale di kickboxing, venuto fuori grazie allo sport – e con l’aiuto del suo allenatore Biagio Tralli, ex campione del mondo, direttore tecnico della Nazionale di low kick – da una storia di spaccio e relativi anni di carcere. «È un film che fa capire a fondo quello che si vive dentro», ci ha detto Sergio, al termine della proiezione.

L’anticamera
A inizio maggio 2016 ricevo una telefonata del direttore dell’Istituto penale per minorenni “Pietro Siciliani” di Bologna, quello che per me è e resta il “dottor Paggiarino”. «Eh Martone, voi se volete venire a fare questo servizio avete a disposizione una settimana a metà maggio. Se vi va bene, altrimenti non se ne può fare niente». La voce che risuona nello smartphone ha un accento che subito mi è familiare. Più tardi avrei scoperto di avere in comune con Paggiarino gli stessi natali avellinesi, lui cresciuto nei primi cinque anni di vita nel capoluogo irpino, dove il padre lavorava come agente di custodia al vecchio carcere borbonico in pieno centro città. Abbiamo presentato a novembre 2015 la richiesta di accesso al carcere. Il progetto era ben strutturato, soggetto e trattamento pronti, la documentazione già raccolta e le linee guida delle interviste già impostate. Dopo la chiamata di Paggiarino abbiamo avuto dieci giorni per mettere insieme attrezzature e troupe, verificando le disponibilità dello staff che avevamo progettato di coinvolgere (Massimiliano Bartolini alla fotografia, Fabio Iaci per l’audio e le musiche). Quindi all’improvviso il ritmo serrato dei giorni di riprese: ogni mattina l’ingresso nella struttura, i controlli, l’anticamera in attesa dell’uscita dei ragazzi dalle celle, la ricerca di un’interazione fluida con le attività, la confidenza che cresce con il personale e con i ragazzi e, ciò nonostante, l’anticamera, ancora, con lunghe interruzioni in caso di trasferimenti o nuovi arrivi.

Il carcere borbonico di Avellino è stato attivo fino al 1987, rientrando poi nel piano di dismissione e dislocazione di queste vecchie strutture avviato dal 1975 in poi. Se il caso del carcere avellinese è legato principalmente alle conseguenze del terremoto del 1980, in generale in Italia a favorire questi spostamenti, nonché l’idea di creare nuove e più moderne strutture, è stata la riforma del sistema penitenziario proprio del ’75. Una riforma «che aveva tra le sue righe – si legge nel dossier di Antigone Lo spazio del carcere e per il carcere – l’idea di un carcere più aperto e di una maggiore osmosi con il mondo esterno, ma che è stata puntualmente disattesa dalla pratica. Paradossalmente, anzi, dal 1975 si è assistito a un progressivo disincentivo alla sperimentazione architettonica sul tema, poi definitivamente dispersasi nella tempesta dell’emergenza degli anni Ottanta, con la costruzione di carceri nelle quali il carattere punitivo della pena continuava ad essere centrale. Questa scomparsa dell’architettura ha determinato il prevalere della cultura dell’isolamento sia dentro che fuori dal carcere: isolamento delle persone detenute tra loro, attraverso strutture architettoniche rigide che non favoriscono le attività di socializzazione; isolamento fisico del carcere dalla città, secondo un processo di periferizzazione rispondente alla volontà di espungere dalle città, e dunque dal consesso dei cittadini liberi, il simbolo della devianza, del pericolo, della malattia».


Carcere e architettura:
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Note di regia
L’approccio è stato un continuo altalenare tra il risultato narrativo da portare a casa, la naturale empatia con dei minori reclusi e il bisogno di un’oggettività che permettesse di non distorcere con alcuna forma di pregiudizio la realtà. «L’occhio obiettivo – spiega il regista Roberto Cannavò – è stato mantenuto anche visivamente: la cinepresa segue i movimenti dei ragazzi durante le loro attività all’interno delle mura del carcere, creando un ambiente abbastanza claustrofobico, da cui emergono le speranze, i progetti futuri dei protagonisti». Un racconto nato partendo dall’esperienza che da più di dieci anni la Uisp Bologna porta avanti nell’Istituto penale per minorenni – organizzando attività sportive come partite di basket, calcio e volley, allenamenti, incontri con squadre dall’esterno – per allargarsi poi agli altri numerosi laboratori finalizzati al recupero e al reinserimento: dalla cucina alla scenotecnica, dalla musica all’arte, passando per lezioni scolastiche e laboratori video.

Uno degli aspetti che più disorienta della realtà interna al carcere minorile è relativo alla presenza di maggiorenni all’interno delle strutture. Perché avviene? Semplicemente perché il codice di giustizia minorile italiano (tra i più avanzati in Europa) prevede che il minore debba scontare la pena con le condizioni che gli sarebbero state riservate nel momento in cui ha commesso il reato. Vale a dire che, per un furto compiuto da minorenne ma la cui condanna sia però arrivata dopo molto tempo, tanto da far diventare nel frattempo il ragazzo maggiorenne, il giovane sarà comunque recluso in una struttura per minori. Questo fino ai 21 anni. Una modifica a questa normativa – legata a ragioni di sovraffollamento delle carceri per adulti – ha poi spinto a 25 anni il limite entro cui si può rimanere in una struttura minorile. Con disappunto generale: della polizia penitenziaria, degli operatori e degli stessi ragazzi reclusi.


Maggiorenni nel carcere minorile. Perché?
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«Questo non è uno zoo»
Ogni percorso produttivo è fatto di collaborazioni, incontri e occasioni. Quando Uisp Emilia-Romagna – consapevole del proprio patrimonio di storie – ha deciso di farsi casa di produzione di un primo prodotto cinematografico, si sapeva anche del bisogno di un appoggio per avviare un percorso di distribuzione. L’esordio, oltre che dalla Regione Emilia-Romagna, è stato fortemente sostenuto dal Comune di Bologna, che ha patrocinato l’iniziativa e favorito con Cineteca di Bologna la presentazione al Cinema Lumière, il 13 maggio 2017, nel festival Human Rights Nights. Il progetto infatti ha visto il coinvolgimento di un pool di donne dell’amministrazione bolognese: l’assessora alle Pari Opportunità Susanna Zaccaria, l’assessora alla Cultura Bruna Gambarelli, la vicesindaco del Comune di Bologna Marilena Pillati e la presidente della Settima Commissione consiliare Parità e Pari opportunità Roberta Li Calzi. Un battesimo di successo, con una sala stracolma al Cinema Lumière. Ci piace credere che non sia stato solo per la curiosità di scoprire l’interno di una realtà come quella del carcere minorile, ma per il genuino coinvolgimento che la città di Bologna, con la sua rete associativa, vive nei confronti dell’istituto. E non penso che a influenzare questa convinzione sia il “dottor Paggiarino”, con la sua voce che ancora mi risuona, quando diceva: «Questo non è uno zoo, perciò non si viene a visitare lo zoo. Chi viene qui deve dare un contributo. Lo puoi anche fare il volontario, ma devi dare un contributo».

 

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Vittorio Martone
Giornalista, produttore e documentarista, dal 2008 dirige l’Area stampa e comunicazione della Uisp Emilia-Romagna. Da freelance collabora con le riviste l’Ultimo Uomo, Undici e Le parole e le cose. È nato ad Avellino nel 1981, vive e lavora a Bologna.




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