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Foto di Matteo Angelini

Protagonisti Matteo Ceccarelli Giovedì 27 giugno 2019

La-ragazza-dai-palleggi-infiniti

Una storia di sport, provincia e ragazzate. E di rottura degli stereotipi, a furia di: «Destro. Sinistro. Ginocchio. Testa».

La-ragazza-dai-palleggi-infiniti è una ragazza di provincia. Non si chiama così perché vive in qualche sparuta riserva indiana, ma perché il suo nome è leggenda nel momento stesso in cui è pronunciato. Soprattutto perché il suo nome è ricordo di uno stereotipo annientato da una serie di palleggi infiniti.

Foto di Matteo Angelini ©

Gli scatti che accompagnano il racconto fanno parte di un lavoro sul calcio femminile del fotografo Matteo Angelini.

Partirò dall’inizio, senza dilungarmi eccessivamente. Io, come La-ragazza-dai-palleggi-infiniti, provengo dalla provincia e molto spesso la provincia è stereotipo, nel bene e nel male. È stereotipo di sé stessa e capace di produrre frutti dolci e velenosi che contagiano l’umanità nel proprio intimo.
Lo stereotipo in sé non sarebbe un male poiché spesso è un meccanismo innato prodotto per la sopravvivenza e la difesa in situazioni potenzialmente pericolose. A quanti di noi, da piccoli, è stato detto: mi raccomando, non dare retta agli sconosciuti! In altri casi, però, lo stereotipo diventa una sottile lama che squarcia la società e diventa una sorta di muro invalicabile. Questo avviene poiché lo stereotipo non si basa su di una conoscenza di tipo scientifico ma, piuttosto, trae forza da considerazioni retrivo-conformiste che non consentono di valutare con lucidità e giusta ratio chi abbiamo di fronte.

Foto di Matteo Angelini ©

Torniamo al dunque, altrimenti non sarei laconico come promesso. La provincia dove siamo cresciuti io e La-ragazza-dai-palleggi-infiniti è come tante altre province. Quattro ciminiere ai punti cardinali, una chiesa dell’anno mille nel marasma moderno e campetti da calcio ai bordi delle periferie. Quei campetti da calcio, all’epoca, delimitavano la fine del centro cittadino e l’inizio di qualcosa che agli occhi di tanti sembrava solo un luogo dove aspettare il tempo. In quei campetti, invece, c’era la prima selezione naturale della società, della polis provinciale. In quei luoghi avveniva una selezione secondo genere, capacità, incapacità e mancanza di neuroni.
C’era chi giocava a calcio poiché non poteva farne a meno e chi, come me, perché non aveva altro da fare. Avrei preferito il basket, la pallavolo, ma in quegli anni era come dichiararsi diverso e si era esclusi da qualsiasi gruppo.

Foto di Matteo Angelini ©

La selezione umana avveniva secondo degli schemi precisi. Il processo iniziava nel momento della formazione delle squadre. Erano scelti prima i due capitani, che solitamente rispecchiavano le persone con più carattere. I due capitani iniziavano la composizione delle squadre, si buttava la conta su chi iniziare e poi si dava inizio al rito. Prima erano scelti i più forti, quelli che potevano fare la differenza in qualsiasi momento del gioco, quelli che non potevano fare a meno di giocare. In seguito, venivano scelti quelli che erano atleticamente preparati o abbastanza grossi da buttarsi in mezzo, nel caso ci fosse stato qualche problema arbitrale. Infine, quelli che si facevano giocare per fare numero. Un giorno dei tanti, però, arrivò un fulmine a ciel sereno a rompere una legge tacitamente riconosciuta fino a quel momento: una ragazza chiese di poter giocare con noi… Il silenzio creato da quella richiesta, con la mancata risposta unanime, mi arrivò dritto al cuore. Il volto della ragazza mi fece in qualche modo capire che quella era una legge da cambiare, ma non potevo certo dirlo in quel momento; in quel momento potevo solo seguire il capitano della mia squadra, ringraziarlo di avermi reso partecipe al gioco e mettermi in campo a correre a più non posso.
Quella richiesta aveva scatenato in me una curiosità incredibile, non riuscivo a capire chi c’era dietro quella ragazza e il motivo per cui avesse fatto quel tipo di richiesta. Dato che in provincia ci si deve inventare sempre qualcosa da fare, decisi, per sollevare il mio animo da tale curiosità, di iniziare a seguirla.

Foto di Matteo Angelini ©

Alta quasi un metro e sessanta. Magrolina. Alla fermata dell’autobus, quando rischiava di perderlo, esplodeva uno scatto improvviso. Lo zaino le scende quasi fin sotto il sedere. Porta sempre i capelli legati. Spesso il pomeriggio lo trascorreva al parco e correva, correva, correva tanto che i miei occhi si stancavano nel vederla girare. Poi un giorno seguendola in un angolo nascosto del parco, la vedo tirar fuori una sacca con una palla dentro e lì il tempo si è fermato e, quel nome, si è impresso nella mia testa come leggenda. La-ragazza-dai-palleggi-infiniti. Destro. Sinistro. Ginocchio. Destro. Sinistro. Ginocchio. Testa. E ancora, ancora, senza alcun tentennamento. Quel pallone di pelle sembrava essere attaccato al suo corpo.
La-ragazza-dai-palleggi-infiniti, nonostante quel primo rifiuto di gruppo, veniva spesso al campetto a vederci giocare, si teneva a distanza e sembrava aver accettato quella legge così stupida. Così un giorno ho compreso che dovevo prendere coraggio, forse è stata una delle poche volte nella vita. Dopo la scelta dei due capitani mi feci avanti e dissi: «Perché non la facciamo giocare con noi?». Prima il silenzio e poi le imprecazioni varie. «Dategli una possibilità, se riesce a palleggiare per almeno trenta volte gioca con noi». Le parole mi scivolarono dalla bocca con una forza che non mi riconoscevo. Sapevo che lei era La-ragazza-dai-palleggi-infiniti e quindi non avrebbe avuto problemi a farlo. A quella mia richiesta si fecero avanti anche altri ragazzi aumentando la richiesta. Il presuntuoso disse di fargliene fare almeno cinquanta senza far cadere la palla. Uno dei due capitani rilanciò a ottanta. Alla fine io, per tagliare la testa al toro, dissi che ne avrebbe fatti cento. L’altro capitano lanciò un pallone alla ragazza, un super tele che non aveva anima, che al solo soffio del vento sarebbe volato via. La-ragazza-dai-palleggi-infiniti lo prese tra le mani lo fece cadere verso il suo piede e iniziò a palleggiare, ma quella palla prese a correre secondo un suo ordine prestabilito, era impossibile palleggiarci, non ci sarebbe riuscito neanche il migliore di noi. Così chiesi di aspettare un attimo e tornai con la sacca nascosta nel parco, le lanciai quella splendida palla di pelle. In quel momento si scrisse la leggenda di La-ragazza-dai-palleggi-infiniti. Da quel pomeriggio quella stupida legge e tanti di quegli stereotipi che c’erano dietro si erano infranti e questo avveniva in una piccola provincia senza speranze.

Foto di Matteo Angelini ©

Da quel giorno che vidi per la prima volta La-ragazza-dai-palleggi-infiniti sono passati diversi anni. Oggi sono un “giovane” di quarant’anni e poco più, ma con acciacchi di almeno una ventina d’anni più di me. Ho una moglie e un figlio, maschio di otto anni fissato con il calcio. Come ogni buon padre che legge, sappiamo che con un figlio di otto anni, malato di calcio, ogni santo pomeriggio dopo i compiti, qualche volta anche prima dei compiti, c’è l’uscita al parco e l’iniziazione al gioco. Ma tra ginocchia scricchiolanti, qualche lacuna su come stoppare un pallone o perdita di memoria su come mettere bene il piede per un super-calcio-potente di collo, preferisco mettermi seduto su una panchina e guardare. Ora sempre voi padri quarantenni o giù di lì, con un figlio maschio di otto anni inizierete ad invidiarmi. Sì a me basta sedermi e guardare, perché la mamma di quel figlio maschio di otto anni con deviazione sociale per il calcio è La-ragazza-dai-palleggi-infiniti. Ognuno sopravvive a suo modo. Un giorno ci sdraieremo tutti e tre sul divano, davanti alla tv, con la finestra aperta a stemperare il primo caldo estivo e ci vedremo la Nazionale giocare ai Mondiali.

Foto di Matteo Angelini ©

Matteo Ceccarelli è autore, musicista, sceneggiatore e regista. È nato a Terni e ha studiato a Roma, dove vive con la sua famiglia.

 

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