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Diritti Francesco Mazzanti Martedì 20 febbraio 2018

Il buio di chi non vuole vedere

«La disabilità è negli occhi di chi guarda e giudica»: la reazione dell'atleta Loris Cappanna al biglietto ingiurioso trovato sul parabrezza della macchina.

Loris Cappanna, accompagnato dalle sue guide, all’arrivo di una gara - Foto dal blog dell’atleta


Un gesto vigliacco nei confronti di un atleta, non vedente, esempio di coraggio e forza di volontà. Il 26 novembre 2017, al termine della gara podistica “Sulle ali di Baracca”, a Lugo, in provincia di Ravenna, l’atleta Loris Cappanna, insieme con l’atleta-guida Andrea Soldati, trovava questo biglietto sul parabrezza: «Un disabile purtroppo non può correre, tu invece corri. Buona disabilità sporco forlivese». Cappanna, non vedente dal 2009 a causa di una patologia, compete in varie discipline e si è aggiudicato la Maratona di Roma nel 2017 (categoria T11). Lo abbiamo contattato per approfondire il fatto e per farci raccontare la sua attività sportiva. 

«La disabilità è solo negli occhi di guarda e giudica». È ciò che hai scritto nel tuo blog il 26 settembre. Una frase premonitrice pensando a ciò che è accaduto il 26 novembre al termine della gara “Sulle ali di Baracca”. Quali sono state le reazioni?
«La frase che hai citato è quella che mi rappresenta di più. Ancora oggi, negli ambienti sportivi, si punta spesso il dito verso la disabilità, come se un disabile non potesse fare sport nel 2018. Quel giorno, all’inizio, pensavo fosse uno scherzo, tra l’altro la gara era terminata in modo splendido (record personale sui 10.000 metri in 37’40’’, con Andrea Soldati come atleta-guida). La prima cosa che è balzata alla vista di Andrea è stato il tergicristallo rotto, pensavamo a un atto vandalico, poi ha notato il bigliettino, non me lo voleva neanche raccontare. Tra l’altro l’auto era nel parcheggio per disabili, dato che ho il permesso. Siamo subito andati dagli organizzatori della gara: hanno interrotto la premiazione e hanno preso le distanze, dimostrando tanta solidarietà. Per quanto mi riguarda ho esposto denuncia e le indagini sono ancora in corso».

Il 5 febbraio la Regione Emilia-Romagna ha pubblicato il rapporto dal titolo Le discriminazioni sulla base della disabilità. Secondo la legge n. 67 del 2006 è necessario operare una distinzione: la discriminazione diretta e quella indiretta. Per diretta si intende il caso in cui «una persona venga trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata una persona non disabile in situazione analoga». Mentre la discriminazione indiretta si riferisce a «una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri che mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone». È chiaro che il contesto in cui si inserisce il cittadino disabile fa la differenza e può risultare decisivo per far sì che ci si possa realizzare pienamente come esseri umani. Se la possibilità di ricorrere a una via giudiziaria può aiutare la vittima di discriminazione, un cambiamento culturale si rivela necessario. Cosa fare? Smettere, per esempio, di associare la persona con il deficit oppure considerare la diversità come un elemento positivo e fecondo per le relazioni umane. Lo sport, da questo punto di vista, si è dimostrato lungimirante. Adesso tocca anche agli altri ambiti della società.

Hai avuto modo, in altre occasioni, di constatare discriminazioni nel mondo dello sport verso gli atleti disabili? Cosa si può fare per cambiare? L’Associazione “Non ho paura del buio” ha questo scopo?
«Tu pensa che io corro con degli atleti-guida con l’aiuto di un cordino che teniamo in mano. Le prime volte le abbiamo sentite tutte: il cordino perché eravamo gay, oppure perché volevamo fare lo stesso tempo. Purtroppo ci sono ancora discriminazioni, in Italia, negli sport paralimpici. “Non ho paura del buio”, di cui sono il presidente, è stata creata per me ma in realtà il buio è qualcosa che spaventa tutti, è l’ignoto. Noi vogliamo portare la luce cercando di aiutare le persone con disabilità a riaffacciarsi al mondo. Non è semplice per nessuno ma vogliamo dare una speranza».

Torniamo allo sport, Loris. Mi hanno colpito molto le descrizioni del tuo rapporto con gli atleti-guida, il significato del cordino. Come si strutturano i vostri allenamenti? Prima di iniziare a correre giocavi a calcio. Da uno sport di squadra a uno individuale, o forse no? Quanto conta il ruolo della squadra?
«Diciamo che ho avuto la fortuna di essere lo sportivo che sono grazie a questi ragazzi. Sono una decina e mi donano la loro vista, ma soprattutto il cuore. Per quanto riguarda gli allenamenti mi alleno tutti i giorni tranne il sabato, il giorno prima della gara. Ho necessità di avere più atleti guida, tutti siamo dilettanti e gestiamo gli allenamenti in base agli impegni lavorativi. Ci alleniamo seguendo una tabella di programmazione che tiene conto delle gare future. D’estate mi dedico anche al triathlon e faccio anche della subacquea: si tratta di immersioni in piscina grazie al gruppo Nemo Diving di Cesenatico: ho scoperto un particolare linguaggio tattile fatto di prese e di tocchi per comunicare».

Com’è stato partecipare alla prima gara di duathlon a Cagli lo scorso agosto? Cosa significa sfrecciare in bici per un non vedente?
«La gara di duatlon è una novità perché ha preso piede nel 2016 grazie ad Asso cooperativa sociale di Cesena. A Cagli è stato emozionante, circa 21 chilometri in bicicletta. La gente si è molto appassionata, perché non capita tutti i giorni. In tanti si sono accodati perché riuscivamo a sprigionare una velocità pazzesca. In leggera discesa eravamo a 60 km orari. I ciclisti a ruota ci seguivano».

Sei ancora rappresentante nel Comitato paralimpico in Emilia-Romagna? È cambiato molto rispetto a qualche anno fa?
«A livello di Comitato sono stato in carica fino all’anno scorso, finito il mandato non mi sono ricandidato ma resto sempre in contatto. Siamo sulla buona strada, ma c’è molto da fare. Per esempio, va dato più spazio agli atleti paralimpici, diffondendo continuamente le gare e non solo in occasione delle Paralimpiadi. Non è semplice se non si è supportati dai media. A Rio, nel 2014, tutti erano esperti di disabilità, menomazioni ecc. Poi dopo passa tutto e nessuno si ricorda più nulla, non c’è seguito».

 

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Francesco Mazzanti
Dopo la laurea internazionale in Culture letterarie europee studia al Master di Giornalismo dell’Università di Bologna. Nel 2018, insieme a Enrico Mariani, ha pubblicato per Pequod il libro Sulla schiena del drago, reportage in Vespa dalle terre del centro Italia colpite dal terremoto del 2016. Nella rete delle polisportive popolari, opera nel settore dell’accoglienza dei migranti, in particolare come allenatore di calcio.

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