FuoriArea.net

Protagonisti Francesco Mazzanti Lunedì 16 luglio 2018

Molto più di un gioco

Che razza di calcio: il libro di Lamberto Gherpelli sul rapporto fra “lo sport più bello del mondo” e il razzismo, presentato ai Mondiali Antirazzisti.

«Io penso che i giocatori possono fare qualcosa. Penso che molti giocatori nelle formazioni di calcio della serie A abbiano questo desiderio di fare qualcosa di concreto». Sono le parole di Ruud Gullit rilasciate a “La Stampa” dopo il derby milanese del 1992, quando il fenomeno olandese venne ricoperto di fischi e buuu razzisti da parte della curva dell’Inter. E quella del Milan, per rispondere, insultò l’unico “terrone” nerazzurro, Salvatore “Totò” Schillaci. Sono soprattutto storie di calcio e di chi lo pratica, quelle raccontate in Che razza di calcio, l’ultimo lavoro del giornalista Lamberto Gherpelli, pubblicato nel 2018, edito da Gruppo Abele Edizioni. Una panoramica di storie umane curiose e dettagliate che conducono il lettore in un’originale storia del calcio, quella del suo rapporto con il razzismo. Dalle origini fino ai nostri giorni: dall’Inghilterra di Watson, Wharton e Tull all’Italia di Balotelli.

«La ginga non era solo uno stile o una caratteristica di un popolo ma un flusso, qualcosa che partiva dalla pancia fino a coinvolgere la testa: era grazia, fluidità, fantasia, il vero cuore multietnico del Brasile», scrive Gherpelli. Nel video un estratto del film Pelè del 2016: una spiegazione sintetica e romanzata della nascita dello stile ginga nel futébol

Tra le storie del libro che colpiscono di più una è sicuramente quella contenuta nel capitolo Il calcio dei Mandela boys. Una parte della storia sportiva (ma non solo) del Sudafrica che, probabilmente, nel mondiale degli stereotipi del 2010 è passata inosservata ma che merita di essere raccontata di nuovo: lo sport può dare un contributo contro il razzismo? Come? Sicuramente la storia dei prigionieri politici Lizo Sitoto, Sedick Isaacs, Sipho Thsabalala, Mark Skinners e Anthony Suze può essere presa come esempio. Rinchiusi a Robben Island «i cinque chiesero per quattro anni il permesso di formare una squadra di calcio e di giocare durante il fine-settimana. Permesso negato. […] Nel dicembre del 1964 i prigionieri ottennero la possibilità di giocare ogni sabato. Nel 1966 formarono la Makana football association. […] Per giocare, avere le maglie, le scarpe e cibo migliore, i prigionieri-giocatori rappresentati dalla Makana cominciarono a negoziare con i loro carcerieri. Diventarono un movimento unito, capace di dialogare, lottare, chiedere e ottenere. E con il preciso intento di lasciare futura memoria della loro battaglia per il diritto al football».

Interessante la domanda che l’autore si pone all’inizio del primo capitolo: siamo di fronte a «uno sport per soli bianchi?». In effetti il calcio, come fenomeno sociale, è sempre stato legato a doppio filo al razzismo: manifestazioni di violenza e chiusura ma anche lotte, resistenze e aperture. Soltanto 21 anni dopo l’invenzione del football, a Berlino le nazioni europee ridefinivano (ancora una volta) i confini e le economie di alcuni Paesi africani. È in Brasile, però, che il rapporto tra calcio giocato e razzismo si manifesta in maniera chiara, secondo l’autore, soprattutto per ciò che ha rappresentato l’appropriazione dello sport dei bianchi da parte dei “poveri, neri e meticci”. Fu nel 1895 la prima partita di pallone disputatasi in Brasile, un evento dovuto al fatto che, ricorda Gherpelli, a fine Ottocento gli inglesi controllavano gran parte del commercio tra l’Europa e il paese del futébol. Ma il calcio è anche gioco e divertimento e sono questi due aspetti a forzare “le resistenze” di chi credeva che fosse destinato solamente a un’élite bianca.

Il trailer di More than just a game che racconta la storia dei Mandela boys”

In Italia il discorso è differente rispetto al Brasile e, in generale, al continente sudamericano. Il libro di Gherpelli è uno strumento utile per aumentare la complessità e stimolare una maggiore comprensione del razzismo nostrano e della sua storia, anche quello che non si manifesta sul prato verde degli stadi. Si parte con gli oriundi, per esempio, che “servono” agli Azzurri nonostante la Carta di Viareggio del 1926, che «vietò di tesserare gli stranieri». Infatti si scoprì ben presto che i club, così come la Nazionale due volte campione del mondo, avevano bisogno dei gol di Enrique Guaita e di Mumo Orsi. Il merito di Gherpelli, inoltre, è quello di riportare alla luce storie sepolte che aprono un nuovo sguardo sul colonialismo, uno dei grandi rimossi dell’immaginario italiano: si racconta infatti la vicenda singolare di Luciano Vassallo, italo-etiope che vinse la Coppa d’Africa con l’Etiopia e venne premiato da Hailè Selassiè in persona (non senza polemiche). Un altro razzismo à l’italienne? Quello di cui si parlava in apertura dell’articolo, l’odio verso i meridionali. Una questione tutta italiana che dai quartieri e dalle strade arriva nei campi di calcio. Chi si ricorda di Pietro Anastasi, per esempio?

Marco Aime, nel 2004, ha scritto Eccessi di culture: un libro interessante e di facile lettura in cui viene criticata l’ossessione per le culture che, secondo l’antropologo, diventano «un recinto invalicabile che alimenta nuove forme di razzismo». Possiamo parlare del Mondiale 2018 in Russia come la coppa dell’eccesso di identità? Se ne parla in un recente articolo di «l’Ultimo Uomo» e se ne è discusso molto prima della finale tra Francia e Croazia. L’esaltazione dei bleus multiculturels è stata forse esagerata, anche se pensata in opposizione a chi immagina un popolo di croati duri-e-puri senza “contaminazioni” con il mondo esterno. Ci si è forse dimenticati della glorificazione dei black-blanc-beur a France 98 e di come quella squadra fosse soprattutto un insieme di undici giocatori, invece che la rappresentazione di un Paese unito e multiculturale. Non c’è il rischio di cadere nella definizione di categorie identitarie rigide, quando invece i calciatori le rimettono in discussione nella pratica del gioco (e anche fuori dal campo)?

La passione di Gherpelli per gli aneddoti e i dettagli offre al lettore una panoramica interessante anche sul calcio attuale e su quello più recente. Dalle dichiarazioni dei cosiddetti “cattivi maestri” (Di Canio e Tavecchio, per esempio) per concludere con le “storie di straordinaria bellezza” dell’ultimo capitolo, necessarie perché offrono una via di fuga. Si racconta la vicenda di Adam Masina, segnato da una vita difficile nella provincia bolognese ma che, grazie alla tenacia, approda in serie A. Oppure «il calcio al razzismo, alla paura delle diversità e alle discriminazioni» di Edèr, giocatore nato in Guinea-Bissau che regala al Portogallo la coppa europea dopo tante fatiche, uscendo dalla povertà. Importante che l’autore non si sia dimenticato della questione del calcio femminile nel Bel Paese: chissà, cambierà qualcosa dopo i Mondiali in Francia del 2019? A otto anni dalla pubblicazione di Che razza di tifo di Mauro Valeri, il lavoro di Gherpelli è un contributo fondamentale perché indaga le bellezze, le criticità e le contraddizioni dello sport che Eduardo Galeano definì «arte dell’imprevisto».

 

castelfranco emilia lamberto gherpelli calcio razzismo

Francesco Mazzanti
Dopo la laurea internazionale in Culture letterarie europee studia al Master di Giornalismo dell’Università di Bologna. Nel 2018, insieme a Enrico Mariani, ha pubblicato per Pequod il libro Sulla schiena del drago, reportage in Vespa dalle terre del centro Italia colpite dal terremoto del 2016. Nella rete delle polisportive popolari, opera nel settore dell’accoglienza dei migranti, in particolare come allenatore di calcio.

Iscriviti

Ricevi la newsletter di FuoriArea.net direttamente nella tua posta

 

I PIÙ LETTI

 

 

 

 

ALTRO SU castelfranco emilia

 

 

 




ALTRO DA Protagonisti